Prima riflessione: la responsabilità genitoriale del rispondere e del corrispondere. La responsabilità genitoriale è data sempre come qualcosa di ovvio, come se sapessimo cosa vuol dire responsabilità ed essere responsabili di fronte ai figli e a noi stessi. Il mero appello alla responsabilità genitoriale può essere una cosa bella e buona, ma certamente non è una esperienza di pensiero e certamente è un argomento tanto ripetuto da non lasciare solitamente nulla in noi e le cose continuano come prima.
Seconda riflessione: la responsabilità genitoriale nel favorire l’autonomia dei figli. La stagione dei diritti ha portato a fare enormi passi avanti, però c’è anche un eccesso di enfasi: sta più alle nostre spalle che davanti a noi. Perché il nostro compito genitoriale supera il riconoscimento dei diritti dei bambini che la società esercita spesso con un processo di delega a tutta una serie di professionisti mettendo quasi in secondo piano il nostro compito genitoriale nei confronti dei figli. Il bambino non ha bisogno di soli diritti e doveri sul piano sociale, ma di un intreccio di relazioni genitoriali quotidiane, costanti e dedicate elargite in modo diretto e non per delega. Ci si riferisce a tutti quegli esercizi di delega che i genitori talora esercitano in modo spropositato, dalla presenza della tata, al parcheggio dai nonni, alle attività scolastiche e parascolastiche, alle attività sportive o ludiche, ecc. Tutte attività che se svolte in modo oculato, senza ridurre l’impegno e la presenza genitoriale, sono ottimali, ma se in definitiva servono per tenere occupato il bambino in assenza dei genitori, allora si deve dire che il bambino ha il diritto di essere occupato dal genitore e il genitore ha il dovere di farlo. Solo attraverso questo gioco di regole, di affetti, di coerenza e di fiducia il bambino si avvia verso una autonomia rimanendo legato alla radice di appartenenza di valori familiari.
Terza riflessione: il diritto del figlio all’incompiutezza e l’incanto dell’autonomia. Vorrei che con questa riflessione affrontassimo il dualismo tra il bambino come estensione di noi e il bambino come soggetto sociale. Dobbiamo ammettere che il concetto di infanzia è più una rappresentazione di noi adulti che qualcosa di reale. L’idea di bambino si riempie inevitabilmente di contenuti che sono degli adulti. Noi assistiamo alla rarefazione dei contenuti ideali dell’infanzia. L’infanzia è l’età della incompiutezza.
Quarta riflessione: il diritto del genitore all’incompiutezza e l’incanto dell’esperienza genitoriale. Questo tentativo di riflessione mi è caro, lungamente sentito, lungamente incompiuto. La prima espressione (incompiutezza genitoriale che non deve essere confusa con l’inadeguatezza, condizione che di solito giunge nelle prime fasi della vita genitoriale) la si comprende solo tardi nel momento in cui si rivede il passato e lo sviluppo che la relazione genitori-figli ha avuto. E’ un momento retrospettivo che deve mettere in crisi, ma non troppo e non troppo deve cadere nel perdonarsi. E’ importante sia per rivedere i comportamenti con i figli successivi, sia per rivedere con i figli già grandi quanto quegli errori hanno inciso nella loro formazione. La seconda espressione ha un valore stupefacente. Ho usato la parola incanto perché tra le famiglie affidatarie è la giusta espressione: madri e padri anche di lungo corso con figli biologici si ripropongono ripartendo da zero per quanto riguarda la gestione dei sentimenti, degli affetti, delle relazioni. Sanno di avvicinarsi ad un confine oltre il quale c’è l’ignoto non sperimentato, il dubbio dell’adeguatezza, il rischio anche per altri cari che subiscono la nostra decisione. Ma al contempo vi è il fascino dell’impresa comune e con sé stessi che genera nuove dinamiche, un nuovo modo di amarsi, un nuovo modo di vivere un’esperienza di nuovo assieme, come quando la coppia si era costituita.
Nota. Alcuni psicologi criticano la motivazione di questa scelta di genitorialità aggiuntiva ponendo il dito sul narcisismo e sul senso di onnipotenza della coppia e sulla presunta impossibilità di ricondurre a normalità il minore deprivato e quindi una tendenza ad una sacrificalità di coppia sospetta. Costoro dunque stigmatizzano pseudo-scientificamente il differente comportamento delle famiglie accoglienti come elemento di diversità dalla norma che sfiora la patologia in una società rinchiusa su un differente senso di famiglia basato sulla media nazionale. Che dire? Chi sceglie di fare l’artista sa che non sempre i sacrifici che affronta saranno colmati dal successo. Man mano che opera ed apprende (come artista e come persona) rimane ai margini della società produttiva alimentando il suo sogno, anche narcisistico e anche di onnipotenza, cioè di potercela fare. Chiaramente ha un comportamento sociale marginale dovendo o vivere di sussistenza familiare, o vivere di un lavoro minimale che non ama e non lo renderà ricco (per diventare ricco ci vuole vocazione!). Solo pochi artisti giungeranno al successo, ma molti alimenteranno la propria vita di sensibilità immateriali i cui fruitori saranno le persone che incontreranno, prima ancora degli acquirenti delle loro opere. Questi psicologi, ma anche medici, sociologi, avvocati, giudici, vicini, ecc. che “hanno dita troppo secche per chiudersi su una rosa” trovano difficoltà soprattutto come persone ad uscire dall’omologazione e quindi per loro è difficile comprendere il piacere del dono senza una contropartita (questa è la definizione di una persona sacrificale). Quale è la contropartita di una famiglia che ha un bambino con un grave handicap e decide di rimanere vicino a questo figlio sfortunato? Sono migliori della coppia che si sente impreparata e lo rifiuta affidandolo alle cure della società? Nessuno si può permettere di fare categorie di valore, è solo necessario il rispetto delle scelte quando non sono di comodo, ma vissute nel dolore e nella sofferenza. Nel processo di omologazione culturale, sociale e comportamentale che stiamo vivendo ci si dimentica che dare senso alla propria vita significa sapere scegliere tra i nostri sentimenti, le nostre incompiutezze, il nostro senso di responsabilità.
2. Strumenti: relazione genitori/figli
Se è vero che la famiglia si struttura con regole, è altrettanto vero che le relazioni tra i componenti familiari si esprimono mediante strumenti comunicativi verbali e non verbali. Vediamo le peculiarità di alcuni strumenti tra i più significativi:
Le risposte possibili. Sono quelle che prendono corpo intorno a temi definiti e riconoscibili. Su questi argomenti i figli sono incerti e curiosi, mentre il padre (madre) cercano di trasferire conferme rassicuranti. Questi dialoghi sono generalmente strutturati intorno ai dati di una esperienza già codificata ed esprimono una relazione intima densa di emozioni anche contraddittorie. Un esempio classico i dialoghi su l’amore e la relazione tra i sessi.
Le risposte impossibili. Sono quelle che il padre (la madre) è chiamato a dare quando il figlio si incontra con un evento illogico, non comprensibile del tipo: perché ci si ammala, perché si muore. Il figlio innesca le domande sulla base delle premesse dalle quali è stato educato a partire e coglie le contraddizioni (ma se io devo procedere per il bene perché sono tanti che procedono per il male!); dal figlio viene sperimentato come un incidente di cui con il il ragionamento tenta di controllare la pericolosità. Le risposte impossibili danno luogo a dialoghi brevi, incerti, inevitabilmente incompleti. Segnalando il disorientamento dei genitori e dei figli di fronte a quella che è comunque una sconfitta della ragione.
Le esperienze importanti. Appartengono al figlio. Vengono raccontate ad un genitore che può fare appello, per aiutare l’elaborazione, solo alla sua capacità di ascoltare e di conversare. A questa categoria appartengono ad esempio il cambiamento di lavoro, il cambiamento di partner, il cambiamento di religione, la decisione improvvisa di andare a vivere da soli. In questi casi i genitori devono scegliere le parole per fare appello alla loro esperienza e alla loro armonia, ma devono anche controllare l’ansia che potrebbero trasmettere al figlio insicurezza e generare smarrimento.
I metaloghi. Sono i dialoghi più complessi che non hanno relazione di tempo e che sono permeati di meta-comunicazioni non verbali. Sono dialoghi che non sembrano tali perché sono sviluppati mentre assieme si fa un lavoro, o mentre si fa la spesa o mentre si è comunque occupati in altre attività, spesso comuni. Un esempio classico è costituito dalle conversazioni in auto dove il luogo costringe a non allontanarsi e al contempo si mettono in atto processi comunicativi liberi con osservazioni che apparentemente non c’entrano nulla, ma che assieme servono a costruire la globalità della comunicazione, abitualmente, a livello non verbale. Nei metaloghi i silenzi sono pieni di comunicazione di sentimenti nei quali si ha insieme consapevolezza e nostalgia se il tempo, la furia degli eventi o la cecità degli affetti non ne hanno impedito lo sviluppo. I metaloghi sono processi magici in cui si accordano gli strumenti dell’affetto e dei sentimenti nei quali miracolosamente si scrive in modo indelebile lo sviluppo dell’educazione ai sentimenti e all’appartenenza.
Se queste quattro situazioni si verificano nella nostra famiglia con una certa frequenza possiamo dire che il tessuto familiare è solido e le espressioni di ruoli, responsabilità e armonia vengono recepite. Questo determina che la famiglia non sia coabitazione di individui autonomi, ma un unico corpo in cui le singole individualità autonome trovano espressione di valore aggiunto e non di limite.
La responsabilità genitoriale sinteticamente si racchiude in tre parole: attenzione, regola, affetto. Tre parole distinte, che appartengono tutte alla stessa radice, la relazione. L’attenzione non è interventismo, ma stare davanti, qualcuno che vede i cambiamenti, interpreta i bisogni e i gesti. Soprattutto l’attenzione rafforza i tentativi, perché crescere è fare tentativi. Poi la regola, che è importante perché misura lo spazio, il tempo, consente il posizionamento nel mondo e le relazioni, perché senza regole non ci sono relazioni. Non è soltanto il saper dire dei no, quello è consequenziale, perché se c’è una regola c’è anche una sanzione: ma la regola serve per far crescere. E infine l’affetto, che è il colore della nostra vita emotiva: possiamo discutere per anni di ciò che è necessario perché i bambini stiano bene, ma la cosa essenziale è l’affetto, il fatto che le persone si sentano accolte, che infatti è l’unica spiegazione del fatto che si può crescere bene indipendentemente dai contesti, dall’estrazione sociale e culturale o dal reddito dei propri genitori.
3. Operatori psicosociali
Assistente sociale
Chi è? E’ un professionista che ha conseguito un Diploma Universitario in Servizio sociale attraverso un corso universitario di durata triennale (ai sensi del Decreto del 23/07/1993) o la Laurea attraverso ulteriori due anni di Dottorato di Ricerca e l’abilitazione all’esercizio della professione (legge N° 84 del 1993 di istituzione dell’Albo degli Assistenti Sociali). L’iscrizione all’Albo è requisito necessario per incarichi all’interno della Pubblica Amministrazione. Dal 1982 fino al 1993 gli operatori hanno conseguito il titolo di studio attraverso corsi triennali delle Scuole Dirette a Fini speciali istituite in ambito universitario. In precedenza i corsi di formazione, sempre di durata triennale e destinati a chi avesse conseguito la maturità, erano stati gestiti da enti pubblici o privati. L’evoluzione della professione è strettamente legata all’evolversi degli eventi storici, delle politiche sociali e delle teorie psicologiche e sociologiche. Alcuni caratteri essenziali ne hanno però accompagnato e delineato l’identità: “è una professione che si esprime e si motiva in quanto interpellata da soggetti alla ricerca di soluzioni per la propria realizzazione”; “è una professione polivalente” a cui ci si rivolge in presenza di un disagio non preventivamente decodificato o non di competenza di una branca specialistica individuabile e che si avvale di strumenti di intervento derivati da supporti teorici specifici e/o mutuati da varie altre discipline; “è una professione sociale” in quanto pur personalizzando la relazione di aiuto, la contestualizza in un ambito sociale più vasto.
Come opera? L’Assistente Sociale acquisisce elementi di conoscenza delle condizioni di vita delle persone che ne chiedono l’aiuto e dei loro nuclei di appartenenza per potere predisporre un progetto di intervento che consiste sia nell’elargizione di aiuti diretti, sia nell’attivazione di presidi esistenti sul territorio, di reti di solidarietà e di altri servizi. Coinvolge la persona nella condivisione del progetto e nella sua realizzazione per superare o ridurre la condizione di disagio. L’Assistente Sociale attiva, quando ne valuta la necessità, altri professionisti per offrire una prestazione integrata e pertanto più comprensiva della pluralità dei bisogni. “L’Assistente Sociale deve salvaguardare gli interessi ed i diritti degli utenti e dei clienti, in particolare di coloro che sono legalmente incapaci e deve adoperarsi per contrastare e segnalare situazioni di violenza o di sfruttamento nei confronti di minori, di adulti in situazioni di impedimento fisico e/o psicologico, anche quando le persone appaiano consenzienti” art. 14 Codice deontologico dell’Assistente Sociale.
Predispone interventi di aiuto e sostegno alla sua famiglia d’origine per metterla in condizione di svolgere le proprie funzioni genitoriali
Valuta quali siano i rischi o il danno per il minore quando la famiglia d’origine dimostri di non adempiere alle proprie funzioni e ai propri doveri di protezione, accudimento, mantenimento, educazione, istruzione.
Propone e predispone forme di integrazione delle funzioni genitoriali quando queste siano insufficienti rispetto ai bisogni del minore.
Propone e predispone forme di sostituzione temporanea delle funzioni della famiglia d’origine quando questa non sia in grado di rispondere a bisogni importanti e fondamentali per la crescita ed il benessere fisico e psichico del minore.
Come interviene nell’ambito dell’affidamento familiare?
Conosce e fornisce alla famiglia affidataria notizie relative al bambino e alla sua famiglia d’origine, delineando i bisogni del bambino, gli obiettivi del progetto di collocazione in affido e il tipo di intervento che verrà messo in atto a sostegno della famiglia d’origine, aggiornando gli affidatari rispetto alle evoluzioni rilevate e concordando eventuali necessità di modifiche al progetto.
Predispone la regolamentazione degli incontri fra il minore e la famiglia d’origine e individua luoghi e modalità di realizzazione degli stessi.
Predispone le provvidenze economiche a favore della famiglia affidataria e chiede la concessione delle eventuali agevolazioni previste per la frequenza scolastica e l’accesso ai servizi da parte dei minori in affido.
Verifica attraverso incontri periodici con gli affidatari l’evoluzione dell’affido in relazione allo stato di benessere del minore, ai suoi rapporti con la famiglia affidataria e con la famiglia d’origine, offrendo il sostegno utile alla riuscita del progetto e all’interesse del minore.
Criticità nella prassi. Quanto descritto definisce quelle che sono le linee guida dell’operato delle Assistenti Sociali che è necessariamente condizionato da elementi che possono costituire forme migliorative o peggiorative dell’intervento quali: la politica sociale dei singoli territori in merito alla scelta delle priorità, le risorse di personale ed economiche di cui dispongono i singoli comuni in rapporto all’utenza, le caratteristiche geografiche e organizzative dei singoli servizi sociali, la presenza o meno di professionisti della stessa e/o diversa formazione con cui avere forme istituzionalizzate di collaborazione, confronto e supervisione. Ancora oggi si verificano frequentemente le condizioni di lavoro stigmatizzate da Cirillo già nel 1987. Nell’attività corrente il sistema di gestione locale è ancora improntato alla mera assistenza. Di fronte ad una domanda assistenziale (di contributo economico, di colonia, invernale, di assistenza nelle pratiche per l’alloggio, ecc.), l’assistente sociale è costretta a svolgere un pur necessario lavoro di sportello che finisce col ridursi ad una semplice elargizione di sussidi senza alcun progetto socialmente finalizzato; si trova spesso a dover rispondere del proprio lavoro a dirigenti (a politici o a assessori) molto più attenti a questioni di bilancio o di immagine pubblica che alla costruzione di un operato finalizzato di cui si vedranno i benefici solo dopo molti anni. Esercita spesso la sua funzione in assoluto isolamento, talora in tali condizioni di sovraccarico di lavoro che non riesce ad effettuare una raccolta organica delle informazioni sul minore e sulla famiglia naturale, a collegare queste ultime in un’ipotesi significativa, a progettare una presa in carico globale del minore e della sua famiglia. Poiché il settore sociale è tra i primi ad essere decurtato un presenza di ristrettezze finanziarie, anche gli operatori sociali sono colpiti da riduzione di organico e da una debole considerazione di valore professionale. A causa di questo stato di cose l’assistente sociale si trova a dover mettere in atto interventi d’urgenza, che tamponano provvisoriamente una situazione, ma rischiano di cronicizzare la difficoltà e di mantenere la famiglia in crisi indefinitamente nel circuito dell’assistenza. Come cita Cirillo, paradossalmente molto spesso i bambini che l’assistente sociale colloca in affido sono i figli degli utenti a cui ha elargito un contributo economico qualche anno prima ………
Cerchiamo di fare chiarezza: che differenza c’è tra psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista?
Lo psicologo è un professionista che, dopo la Laurea in Psicologia, ha superato l’esame di Stato e si è iscritto all’Albo Professionale della sua Regione, per poter esercitare la professione. Se non ha l’iscrizione all’Albo, è come un laureato in altra disciplina, ad esempio in Legge, che può insegnare o fare altro, ma non è avvocato. Lo psicologo può fare diagnosi, valutazioni, interventi di prevenzione, ma non “cura”. Non utilizza farmaci come metodologia di lavoro.
Lo psicoterapeuta è un professionista che ha proseguito il percorso di formazione, di cui l’Ordine ha riconosciuto la validità iscrivendolo all’Elenco degli psicoterapeuti. E’ colui che “cura”, che lavora per eliminare il sintomo, la patologia, il disagio e aiutare la persona a tornare ad una condizione di benessere, magari migliore di quello precedente. Non utilizza farmaci per lavorare con le persone, benché possa prevedere la combinazione di psicoterapia e psicofarmacologia. Con la normativa attuale, può essersi specializzato dopo una Laurea in Psicologia o Medicina.
Lo psicoanalista è un professionista che ha seguito una formazione analitica, freudiana o post freudiana (classicamente lavora col lettino); l’esplorazione dell’inconscio viene finalizzata ad un migliore adattamento al presente e ad una migliore conoscenza di sé. Vi sono poi altre professioni, come quella del sociologo, del pedagogista e del filosofo, che non hanno obiettivi di cura, in quest’area, ma piuttosto di consulenza.
Come si diventa psicologi? La professione è regolamentata e disciplinata dall’Ordine degli psicologi e dall’Albo degli psicoterapeuti. Dopo l’università occorre un anno di tirocinio presso una struttura pubblica (Asl) o privata o universitaria. Al termine del tirocinio si può dare l’esame d’ingresso nell’Ordine, poi occorrono quattro anni di specializzazione e, infine, l’ingresso nell’Albo.
Come può una persona che non ci conosce aiutarci a conoscerci meglio? La regola generale dice che lo psicologo può conoscere solo nella misura in cui la persona si rende disponibile e desidera farsi conoscere, raccontando esperienze di vita, proprie riflessioni, blocchi, vissuti, domande, aspettative. Ma perché poi parlare con uno psicologo sarebbe più efficace che parlare con un’altra famiglia amica? Sicuramente si tratta di relazioni differenti: lo psicologo usa tecniche e modi che non si utilizzano tra amici, aiuta a trovare parole e significati, condivide ed empatizza con la persona su aspetti che sono molto intimi, privati e profondi; gli amici sono dei compagni di avventure, di esperienze nuove, simpatizzano nelle situazioni come non succede in terapia. Lo psicologo, quindi, può aiutare la famiglia a conoscersi meglio solo attraverso un rapporto di collaborazione.
Valutazione degli interventi di accoglienza. Compiere una valutazione degli esiti delle accoglienze dei minori e delle accoglienze familiari in generale è oltremodo difficile, tanto da essere definita una verifica incerta. La difficoltà è anzitutto metodologica, volendo dare rigore scientifico all’analisi valutativa. Il problema si presenta classicamente come un caso in cui solo attraverso una analisi multifattoriale si riesce a determinare una espressione che abbia un qualche rigore di significatività, quindi solo attraverso una analisi di numeri elevati e significativi sul piano statistico. Infatti, i parametri da considerare sono molto numerosi e tra loro soggetti a grande variabilità. Sul piano della metodologia scientifica queste situazioni vengono risolte aumentando il numero dei dati raccolti sino a che l’analisi statistica non rende significativo il risultato, oppure ricorrendo ad una metodologia a posteriori come la meta-analisi.
In Italia, ancora oggi, non è possibile alcuna vera valutazione esaustiva delle diverse forme di accoglienza poiché il numero dei dati da analizzare che seguono criteri rigorosi e statisticamente significativi è in molti casi assai limitato. Se si inseriscono nella valutazione anche altre variabili, la significatività scientifica si allontana ancora di più dalla valutazione pertinente. Sono fattori di variabilità: la soggettività degli attori coinvolti, il turn over degli operatori (un bambino a causa delle esigenze di servizio difficilmente riesce ad avere una stabilità nell’operatore: è costretto a subire spesso cambiamenti per lui non facilmente comprensibili), la mutabilità temporale, le condizioni variabili di conteso, le disposizioni di gestione socio-economico delle accoglienze (ovvero la valutazione sul costo socioeconomico degli interventi, considerazioni ineccepibili sul piano gestionale ma che difficilmente possono essere comprese dall’assistito che le percepisce come uno scarico di interesse), ecc. Si potrebbe concludere che una vera valutazione è impossibile, tuttavia non è del tutto vero. Infatti, pur non conoscendo la realtà finale nei suoi dettagli scientifici e metodologici, possiamo compiere interessanti rilevazioni di orientamento che ci permettono di fare considerazioni predittive, di orientamento appunto, senza entrare troppo nella espressione di sicura certezza scientifica.
Nelle relazioni tra operatori e famiglie e nelle relazioni tra operatori e manager di struttura esistono le stesse derive che sono presenti in qualsiasi organizzazione aziendale. Per chiarire questo punto si prende ad esempio esattamente un consolidato di esperienza di psicologia del lavoro sulle informazioni e la loro gestione. Nel caso dell'accoglienza le informazioni hanno un doppio flusso tra famiglie e operatori. Le informazioni primarie nascono dalla famiglia accogliente. L'operatore le assume e le trasforma sul piano professionale in risposte informative adeguate verso la famiglia. L'operatore a sual volta è portatore di informazioni verso il manager della propria struttura il quale una volta assunte le elabora e le traduce in informazioni di servizio che trasmette agli operatori. Questa catena relazionale, come si è detto, è ben nota e qui, proprio per sottolinearne la generalità viene proposta in due immagini che possono essere doppiamente sostituendo di volta in volta il "lavoratore" ora con la famiglia nella relazione con l'operatore (questa volta manager) e dell'operatore (questa volta "lavoratore") verso il manager.
Accoglienza. Valutare gli esiti dell’accoglienza sul piano sociologico è possibile solo se si considera un livello di astrazione molto elevato inserendo variabili sociologiche di grande rilevanza selettiva soprattutto poiché l’accoglienza familiare si esprime in forme molto diverse, dall’accoglienza di una mamma con bambino all’accoglienza di un disabile, di un anziano, ecc. Per ora si hanno dati solo per comunità di accoglienza e per problemi sociali e comportamentali assai rilevanti (tossicomanie, prostituzione, homeless ecc.).
Adozioni. Si hanno situazioni meno variabili rispetto alla precedente essendo una forma di accoglienza assai antica e storicamente valutabile in termini numerici (ancorché gli adottati socialmente considerati figli di un dio minore). I dati sulle adozioni sono storicamente meglio rilevabili, ma sul piano dello studio sono concentrati sugli insuccessi, mentre i successi cadono in un limbo metodologico a causa della privacy. Si deve ricordare che nell’adozione di minori piccoli dopo una fase di adattamento le dinamiche sono simili a quelle dell’allevamento dei figli biologici. Diversa è la situazione di adozione di minori con un vissuto formativo extra-familiare importante, dove le dinamiche per alcune impostazioni metodologiche sono simili a quelle che si attuano nell’affido a lungo termine. Inoltre, si ricorda che nell’adozione l’intervento dei servizi è istituzionalmente assai limitato, spesso non gradito, e considerato come una fase iniziale da superare (così non si usufruisce di esperienze di rete e di competenze specifiche).
Affido. Da un lato è la situazione più complessa, ma dall’altro è la situazione su cui è possibile tentare maggiori esplorazioni di senso, se non di significatività. Per questo dedicheremo a questo argomento più attenzioni, consapevoli che alcune considerazioni sono perfettamente trasportabili nell’esercizio dell’accoglienza (sia di minori che di adulti) o a casi di adozione (specie quelli di adozione di minori dall’età scolare in poi, ovvero che hanno comunque già acquisito un vissuto formativo importante).
Per tentare di valutare l’efficacia dell’affido familiare bisogna tenere conto di diverse variabili in ordine di priorità: a) funzionamento del sistema dei servizi; b) effetti permanenti sul bambino; c) effetti permanenti sulla famiglia di origine; d) funzionamento della famiglia affidataria. Come si può vedere nell’ordine, preminente è il servizio e sussidiaria è la famiglia affidataria perché se il servizio determina un buon abbinamento basato sull’oggettività, già la metà degli elementi predittivi sono raggiunti. Il secondo livello è costituito dagli effetti permanenti sul bambino. Questo aspetto è fondamentale e deve essere monitorato a più fasi e con più ruoli congiuntamente tra servizio e famiglia affidataria. Qui l’intesa è fondamentale senza tuttavia determinare confusione di ruoli. Esiste poi un problema metodologico di baseline: non si possono valutare i progressi dei bambini affidati sulla base della media dei bambini biologici, poiché essi partono da una condizione di svantaggio sul piano dello sviluppo e dell’adattamento e quindi non sono confrontabili. Se nella valutazione non si considerano queste evidenze di partenza si finisce con avere operatori e famiglie affidatarie scoraggiate con un senso di inutilità del loro impegno.
Valutazione degli obiettivi intermedi negli affidi. La formulazione di obiettivi intermedi è di grande importanza come anche la verifica del loro raggiungimento e delle ragioni del mancato raggiungimento. Non fare questo lavoro significa improvvisare, improvvisare significa affidarsi alla sorte che a volte è benigna, ma spesso è maligna. In questo campo sono significativi i lavori di Martin (2000) che propone una serie di indicatori utili nella valutazione degli obiettivi intermedi che facciamo nostri quali: stabilità del contesto, clima emotivo, sviluppo e recupero dei ritardi, recupero del parenting (percorso da far svolgere alla famiglia di origine, assai poco praticato nella realtà italiana).
Valutazione degli obiettivi a lungo termine dell’affidamento familiare. I dati significativi di restituzione sono davvero ancora pochi e si focalizzano prevalentemente sui seguenti indicatori: il poter disporre, da parte del bambino, di un contesto di cure stabili entro un periodo ragionevole di tempo; l’impatto positivo dell’esperienza di affido sul funzionamento dell’individuo a lungo termine; l’impatto positivo dell’affido sulle modalità di funzionamento a lungo termine della famiglia di origine. Nell’insieme questi indicatori portano a valutare se il bambino ha potuto disporre di cure adeguate per il raggiungimento della sua autonomia da adulto.
Le fonti per conoscere il senso ed il ruolo dell'accoglienza dei minori sono numerose e assai vaste sono le possibilità di approfondire questa attività. La base rimane una sensibilità corretta sui fondamenti della genitorialità sulle sue leve umane e sulle sue ambiguità individuali e sociali.
Gli studi sui genitori accudenti e inaccudenti e sui bambini rispettati ed abusati sono numerosi, ma non sono mai sufficienti poiché la società in continua evoluzione fa nascere nuovi bisogni verso i minori e i minori stessi hanno bisogno di nuove risposte sempre adeguate al contesto in cui loro sono chiamati a vivere. Studiare psicologicamente e sociologicamente questi aspetti del vivere la relazione genitoriale non ha confini e non ha traguardi raggiungibili. L'unica certezza è il cammino che si compie e che modifica noi stessi e chi ci circonda, che muta il senso del vivere, le priorità, che è fonte di gioie e di tante amarezze, difficoltà ed incapacità.
La forma di apprendimento strumentale più corretta e più efficace è quella di vivere con altri queste esperienze e non chiudersi in egoismi o in nicchie che rifiutano il confronto sui proprie abilità o sulle proprie incapacità. L'invito è quindi rivolto alla partecipazione associativa, alla frequenza dei gruppi di auto-aiuto, alla comunicazione con altre famiglie che vivono le stesse esperienze.
La seconda forma di apprendimento rimane quella individuale ovvero (tempo permettendo) la lettura di opere sulla materia. Per questo si fornisce qui di seguito una bibliografia dedicata scaricabile utile per trovare le risposte ai propri dubbi o alla propria conoscenza sia pratica che meramente culturale.
La GEA Società Cooperativa Sociale è una Cooperativa Sociale di tipo “A” (L.381/91), finalizzata alla gestione dei Servizi Socio – Sanitari ed Educativi.
Nasce a Bari–Palese nel giugno 1984 e nei diversi anni di attività ha sviluppato nell’ambito dei territori d’intervento, una rete socio–assistenziale ed educativa territoriale, sia con ...
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