Prima riflessione: la responsabilità genitoriale del rispondere e del corrispondere. La responsabilità genitoriale è data sempre come qualcosa di ovvio, come se sapessimo cosa vuol dire responsabilità ed essere responsabili di fronte ai figli e a noi stessi. Il mero appello alla responsabilità genitoriale può essere una cosa bella e buona, ma certamente non è una esperienza di pensiero e certamente è un argomento tanto ripetuto da non lasciare solitamente nulla in noi e le cose continuano come prima.
Seconda riflessione: la responsabilità genitoriale nel favorire l’autonomia dei figli. La stagione dei diritti ha portato a fare enormi passi avanti, però c’è anche un eccesso di enfasi: sta più alle nostre spalle che davanti a noi. Perché il nostro compito genitoriale supera il riconoscimento dei diritti dei bambini che la società esercita spesso con un processo di delega a tutta una serie di professionisti mettendo quasi in secondo piano il nostro compito genitoriale nei confronti dei figli. Il bambino non ha bisogno di soli diritti e doveri sul piano sociale, ma di un intreccio di relazioni genitoriali quotidiane, costanti e dedicate elargite in modo diretto e non per delega. Ci si riferisce a tutti quegli esercizi di delega che i genitori talora esercitano in modo spropositato, dalla presenza della tata, al parcheggio dai nonni, alle attività scolastiche e parascolastiche, alle attività sportive o ludiche, ecc. Tutte attività che se svolte in modo oculato, senza ridurre l’impegno e la presenza genitoriale, sono ottimali, ma se in definitiva servono per tenere occupato il bambino in assenza dei genitori, allora si deve dire che il bambino ha il diritto di essere occupato dal genitore e il genitore ha il dovere di farlo. Solo attraverso questo gioco di regole, di affetti, di coerenza e di fiducia il bambino si avvia verso una autonomia rimanendo legato alla radice di appartenenza di valori familiari.
Terza riflessione: il diritto del figlio all’incompiutezza e l’incanto dell’autonomia. Vorrei che con questa riflessione affrontassimo il dualismo tra il bambino come estensione di noi e il bambino come soggetto sociale. Dobbiamo ammettere che il concetto di infanzia è più una rappresentazione di noi adulti che qualcosa di reale. L’idea di bambino si riempie inevitabilmente di contenuti che sono degli adulti. Noi assistiamo alla rarefazione dei contenuti ideali dell’infanzia. L’infanzia è l’età della incompiutezza.
Quarta riflessione: il diritto del genitore all’incompiutezza e l’incanto dell’esperienza genitoriale. Questo tentativo di riflessione mi è caro, lungamente sentito, lungamente incompiuto. La prima espressione (incompiutezza genitoriale che non deve essere confusa con l’inadeguatezza, condizione che di solito giunge nelle prime fasi della vita genitoriale) la si comprende solo tardi nel momento in cui si rivede il passato e lo sviluppo che la relazione genitori-figli ha avuto. E’ un momento retrospettivo che deve mettere in crisi, ma non troppo e non troppo deve cadere nel perdonarsi. E’ importante sia per rivedere i comportamenti con i figli successivi, sia per rivedere con i figli già grandi quanto quegli errori hanno inciso nella loro formazione. La seconda espressione ha un valore stupefacente. Ho usato la parola incanto perché tra le famiglie affidatarie è la giusta espressione: madri e padri anche di lungo corso con figli biologici si ripropongono ripartendo da zero per quanto riguarda la gestione dei sentimenti, degli affetti, delle relazioni. Sanno di avvicinarsi ad un confine oltre il quale c’è l’ignoto non sperimentato, il dubbio dell’adeguatezza, il rischio anche per altri cari che subiscono la nostra decisione. Ma al contempo vi è il fascino dell’impresa comune e con sé stessi che genera nuove dinamiche, un nuovo modo di amarsi, un nuovo modo di vivere un’esperienza di nuovo assieme, come quando la coppia si era costituita.
Nota. Alcuni psicologi criticano la motivazione di questa scelta di genitorialità aggiuntiva ponendo il dito sul narcisismo e sul senso di onnipotenza della coppia e sulla presunta impossibilità di ricondurre a normalità il minore deprivato e quindi una tendenza ad una sacrificalità di coppia sospetta. Costoro dunque stigmatizzano pseudo-scientificamente il differente comportamento delle famiglie accoglienti come elemento di diversità dalla norma che sfiora la patologia in una società rinchiusa su un differente senso di famiglia basato sulla media nazionale. Che dire? Chi sceglie di fare l’artista sa che non sempre i sacrifici che affronta saranno colmati dal successo. Man mano che opera ed apprende (come artista e come persona) rimane ai margini della società produttiva alimentando il suo sogno, anche narcisistico e anche di onnipotenza, cioè di potercela fare. Chiaramente ha un comportamento sociale marginale dovendo o vivere di sussistenza familiare, o vivere di un lavoro minimale che non ama e non lo renderà ricco (per diventare ricco ci vuole vocazione!). Solo pochi artisti giungeranno al successo, ma molti alimenteranno la propria vita di sensibilità immateriali i cui fruitori saranno le persone che incontreranno, prima ancora degli acquirenti delle loro opere. Questi psicologi, ma anche medici, sociologi, avvocati, giudici, vicini, ecc. che “hanno dita troppo secche per chiudersi su una rosa” trovano difficoltà soprattutto come persone ad uscire dall’omologazione e quindi per loro è difficile comprendere il piacere del dono senza una contropartita (questa è la definizione di una persona sacrificale). Quale è la contropartita di una famiglia che ha un bambino con un grave handicap e decide di rimanere vicino a questo figlio sfortunato? Sono migliori della coppia che si sente impreparata e lo rifiuta affidandolo alle cure della società? Nessuno si può permettere di fare categorie di valore, è solo necessario il rispetto delle scelte quando non sono di comodo, ma vissute nel dolore e nella sofferenza. Nel processo di omologazione culturale, sociale e comportamentale che stiamo vivendo ci si dimentica che dare senso alla propria vita significa sapere scegliere tra i nostri sentimenti, le nostre incompiutezze, il nostro senso di responsabilità.
La GEA Società Cooperativa Sociale è una Cooperativa Sociale di tipo “A” (L.381/91), finalizzata alla gestione dei Servizi Socio – Sanitari ed Educativi.
Nasce a Bari–Palese nel giugno 1984 e nei diversi anni di attività ha sviluppato nell’ambito dei territori d’intervento, una rete socio–assistenziale ed educativa territoriale, sia con ...
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